La psicologia dell’iniquo compenso
In un Paese sano e civile, rispettoso della saggezza delle madri e dei padri costituenti e dunque dell’art. 36 della nostra Costituzione, nessuno dovrebbe essere costretto ad invocare l’emanazione di un provvedimento legislativo che possa garantire un equo compenso. Ma in Italia, ormai da troppo tempo, la sollecitiamo in almeno 1.384.000 (cittadini che svolgono la libera professione come attività principale, ossia circa il 25,4% della forza lavoro nazionale – dati ISTAT 2016).
Finalmente, dopo tanto lavoro e innumerevoli confronti con le rappresentanze politiche, il 15 ottobre ci giunge la buona novella: la Commissione Bilancio del Senato, con il decreto fiscale collegato alla legge di bilancio 2018, approva la garanzia di un compenso minimo equo e adeguato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto da tutti i professionisti, attualmente all’esame della Camera. Da qui l’illusione che il nostro Paese volesse rimanere fedele ai principi costituzionali.
Ma come l’esperienza ci insegna ad ogni illusione corrisponde una disillusione. Ci ha pensato l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (Antitrust) a farci riconnettere con la realtà di uno Stato che, nel goffo tentativo di garantire i principi di proporzionalità concorrenziale e i processi di liberalizzazione, sdogana i servizi professionali low cost, secondo cui le professioni intellettuali, per rimanere sul mercato, dovrebbero aderire al Black Friday e alle varie svendite stagionali. (SIC!)
Ci chiediamo, a questo punto, quali possano essere le derive percettive dei cittadini e dei professionisti in merito alla garanzia di qualità e affidabilità dei servizi professionali che devono soddisfare i bisogni essenziali della comunità.
Quanto si sentirebbe protetto un cittadino residente in una città il cui piano regolatore è stato appaltato alla cifra di un euro? Quanto si sentirebbe al sicuro una cittadina che affida la propria vita ad un chirurgo a contratto che deve operare per numerose ore per pochi spicci? Quanto si sentirebbe garantita una cittadina la cui sussistenza economica è in mano ad un perito che per accaparrarsi l’incarico professionale ha accettato condizioni economiche paradossali? Quanto si sentirebbe fiducioso un cittadino che deve affidare la propria difesa ad un’avvocata che guadagna meno del proprio colf? Ed i cittadini che vogliono prendersi cura della propria salute mentale rivolgendosi ad uno psicologo che forse, in una vita di lavoro, non riuscirà a recuperare i soldi spesi per formarsi?
Dovremmo forse introdurre nelle università nuovi moduli formativi finalizzati all’acquisizione di strategie di ottimizzazione e moltiplicazione del tempo, nonché di accettazione dell’assunto “vivere per lavorare” piuttosto che “lavorare per vivere”. I professionisti supereroi per riuscire a sopravvivere, nell’era di grande sensibilità per il welfare, dovrebbero essere in grado di erogare più servizi contemporaneamente, rinunciare ad una vita privata e sbaragliare i colleghi concorrenti accettando incarichi pro bono solo per aggiungere un’altra voce ai chilometrici curricula, nella speranza che questo possa successivamente determinare la firma di un contratto da un euro.
Non chiediamo, come sembra temere il Garante, la reintroduzione delle tariffe minime applicabili a tutti i tipi di contratto. Condividiamo l’opportunità che i professionisti possano concordare con i singoli cittadini il valore economico dei servizi erogati, in un rapporto simmetrico, garantendo così i principi di proporzionalità concorrenziale e i processi di liberalizzazione. Desideriamo, come previsto dal decreto fiscale attualmente all’esame della Camera, sicuramente perfettibile in merito alle previste clausole vessatorie, di regolamentare i rapporti, nella fattispecie asimmetrici, tra i professionisti e la Pubblica Amministrazione, le grandi imprese, le banche e le assicurazioni, a garanzia del “diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa” (art. 36 Costituzione).
Nell’attesa di sapere se il parere, non vincolante, dell’Antitrust determinerà una battuta d’arresto, o un’epurazione dei contenuti essenziali, del decreto fiscale, continuiamo a sperare di poter essere messi nelle condizioni di sentirci cittadini di un Paese che aborrisce l’iniquità, favorisce l’incremento della qualità di vita e di conseguenza la qualità, oltre che la quantità, dei servizi garantiti ai cittadini.